Panta rei - Inattesi incontri
Riflessioni...

venerdì 29 aprile 2011

Il grande Leonardo! Flower of life!


... il Grande Leonardo aveva già capito tutto.... :)

lunedì 25 aprile 2011

Rodolfo Siri - Breathing (Nel Respiro)



"Il respiro è il ponte che connette la vita alla coscienza,
che unisce il corpo ai pensieri"
- Thich Nhat Hanh -


"Breathing (Nel Respiro)" di Rodolfo Siri

Il sorriso del Buddha




Ai piedi dell’albero di pippala l’eremita Gautama raccolse il suo formidabile potere di concentrazione nell’esame del corpo. Vide che ogni cellula è come una goccia d’acqua immersa nel fiume infinito di nascita esistenza e morte, senza riuscire a trovare nel corpo una sola cosa che rimanga immutata o di cui sia lecito dire che costituisca un sé separato. Mescolato con il fiume del corpo scorre il fiume delle sensazioni, in cui ogni goccia d’acqua è una sensazione. E anche queste gocce si accavallano in un processo di nascita esistenza e morte. Alcune sensazioni sono piacevoli, altre spiacevoli e altre ancora neutre, ma tutte sono impermanenti. Appaiono e scompaiono, precisamente come le cellule del corpo.

Con potente concentrazione Gautama investigò il fiume delle percezioni, che scorre intrecciato al fiume del corpo e delle sensazioni. Le gocce del fiume delle percezioni si frammischiano influenzandosi l’un l’altra, in un identico processo di nascita esistenza e morte. Se le percezioni sono accurate, la realtà si rivela; se sono distorte, si svela. Gli uomini sono eternamente preda della sofferenza a causa delle percezioni distorte: credono permanente ciò che è impermanente, dotato di un sé ciò che è privo di un sé, soggetto a nascita e morte ciò che non soffre né nascita né morte, e dividono ciò che non si può dividere.

Quindi illuminò di consapevolezza gli stati mentali che causano la sofferenza: paura, ira, odio, arroganza, gelosia, avidità, ignoranza. La consapevolezza divampò in lui come un solo radiante, e Gautama usò il sole della consapevolezza per illuminare la natura di questi stati mentali negativi. Vide come tutti nascono a causa dell’ignoranza. Sono l’esatto contrario della consapevolezza. Sono tenebra, assenza di luce. Vide che la chiave per giungere alla liberazione è perforare l’ignoranza e penetrare nel cuore della realtà per farne esperienza diretta. Tale conoscenza non è più conoscenza intellettuale, ma esperienza diretta.

In passato, Siddhartha aveva esplorato molti modi per vincere la paura, l’ira e l’avidità, ma i metodi usati non avevano dato frutto perché non erano che tentativi di sopprimere sensazioni ed emozioni. Ora capiva che anch’essi erano causati dall’ignoranza e che, liberandosi dall’ignoranza, le ostruzioni mentali svaniscono da sé, come le ombre al sorgere del sole. La visione profonda di Siddhartha era il frutto della sua grande concentrazione.

Sorrise e levò lo sguardo a una foglia di pippala stagliata contro il cielo azzurro, la cui punta ondeggiava verso di lui come se lo chiamasse. Osservandola in profondità, Gautama vi distinse chiaramente la presenza del sole e delle stelle; perché senza sole, senza luce e calore, quella foglia non sarebbe esistita. Questo è in questo modo, perché quello è in quel modo. Anche le nuvole vide nella foglia, perché senza nuvole non c’è la pioggia e, senza pioggia, quella foglia non poteva esistere. E vide la terra, il tempo, lo spazio, la mente: tutti presenti nella foglia. In verità, in quel momento preciso, l’universo intero si manifestava nella foglia. La realtà della foglia era un miracolo stupefacente.

Generalmente si pensa che una foglia sia nata a primavera, ma Gautama vide che esisteva già da tanto, tanto tempo nella luce del sole, nelle nuvole, nell’albero e in se stesso. Comprendendo che quella foglia non era mai nata, comprese che anche lui non era mai nato. Entrambi, la foglia e lui stesso, si erano semplicemente manifestati. Poiché non erano mai nati, non potevano morire. Questa visione profonda dissolse le idee di nascita e morte, di comparsa e scomparsa; e il vero volto della foglia, assieme al suo stesso volto, divennero manifesti. Vide che è l’esistenza di ciascun fenomeno a rendere possibile l’esistenza di tutti gli altri fenomeni. L’uno contiene il tutto, e il tutto è contenuto nell’uno.

La foglia e il suo corpo erano una cosa sola. Nessuno dei due possedeva un sé permanente e separato, nessuno dei due poteva essere indipendente dal resto dell’universo. Vedendo la natura interdipendente di tutti i fenomeni, Siddhartha ne vide perciò la natura vuota: tutte le cose sono vuote di un sé separato e isolato. Comprese che la chiave della liberazione sta nei due principi dell’interdipendenza e del non sé. Le nuvole correvano nel cielo, come uno sfondo bianco dietro la foglia traslucida di pippala. Forse quella sera stessa, incontrando una corrente fredda, le nuvole si sarebbero trasformate in pioggia. Le nuvole erano una manifestazione, e la pioggia un’altra manifestazione. Le nuvole, che non erano mai nate, non sarebbero mai morte. Se le nuvole potessero capirlo, pensò Gautama, avrebbero certo cantato di gioia cadendo sotto forma di pioggia sulle montagne, le foreste e le risaie.

Illuminando i fiumi del corpo, delle sensazioni, delle percezioni, delle formazioni mentali e delle coscienza, Siddhartha comprese che l’impermanenza e l’assenza di un sé sono le condizioni indispensabili alla vita. Senza impermanenza, senza mancanza di un sé, nulla potrebbe crescere ed evolversi. Se un chicco di riso non avesse la natura dell’impermanenza e del non sé, non potrebbe trasformarsi una piantina. Se le nuvole non fossero prive di un sé e impermalenti, non potrebbero trasformarsi in pioggia. Senza natura impermanente e priva di un sé, un bambino non potrebbe diventare adulto. “Quindi” pensò, “accettare la vita significa accettare l’impermanenza e l’assenza di un sé. La causa della sofferenza è la falsa nozione della permanenza e di un sé separato. Vedendo ciò, si giunge alla comprensione che non c’è né nascita né morte, né creazione né distruzione, né uno né molti, né dentro né fuori, né grande né piccolo, né puro né impuro. Sono tutte false distinzioni create dall’intelletto. Penetrando nella natura vuota delle cose, le barriere mentali vengono scavalcate e ci si libera dal ciclo della sofferenza”.

Una notte dopo l’altra Gautama meditò ai piedi dell’albero di pippala, facendo splendere la luce della consapevolezza sul suo corpo, la sua mente e tutto l’universo. Da tempo i cinque amici l’avevano abbandonato, ed erano rimasti a praticare con lui la foresta, il fiume, gli uccelli e le miriadi di insetti che abitano la terra e gli alberi. Suo fratello nella pratica era il grande albero di pippala. Anche la stella della sera che appariva ogni notte mentre sedeva in meditazione era suo fratello nella pratica. Fino a notte fonda meditava Gautama.

I bambini del villaggio andavano a trovarlo solo nelle prime ore del pomeriggio. Un giorno Sujata gli portò riso cotto nel latte e nel miele, e Svasti una bracciata di erba kusa. Dopo che Svasti l’ebbe lasciato per ricondurre i bufali a casa, Gautama fu invaso dalla sensazione che quella notte stessa avrebbe ottenuto il Grande Risveglio. La notte precedente aveva fatto molti sogni strani. Nel primo, vide se stesso disteso su un fianco, che con le ginocchia sfiorava l’Himalaya, con la mano sinistra toccava la riva del Mare Orientale, con la destra la riva del Mare Occidentale, e con i piedi poggiava sulla riva del Mare Meridionale. Nel secondo sogno, un fiore di loto grande come la ruota di un carro sbocciava dal suo ombelico e cresceva fino alle nuvole più alte. Nel terzo, uccelli di ogni colore, in numero incalcolabile, volavano verso di lui da tutte le direzioni. Quei sogni gli sembravano il presagio che il Grande Risveglio fosse vicino.

Nelle prime ore della sera praticò la meditazione camminata lungo la riva del fiume. Entrò nell’acqua e si bagnò. Al crepuscolo ritornò a sedere sotto il familiare albero di pippala. Sorrise guardando l’erba kusa sistemata di fresco ai piedi dell’albero. Proprio meditando sotto quell’albero aveva fatto tante importanti scoperte. Ora, il momento che aveva tanto atteso si avvicinava. La porta dell’Illuminazione stava per spalancarsi.

Lentamente Siddhartha si sedette nella posizione del loto. Guardò il fiume che scorreva placido in lontananza, mentre la brezza accarezzava l’erba della riva. La foresta era in pace, anche se piena di vita. Miriadi di insetti gli ronzavano intorno. Rivolse la consapevolezza al respiro e socchiuse gli occhi. Nel cielo comparve la stella della sera.


Grazie alla presenza mentale, la mente, il corpo e il respiro di Siddhartha erano perfettamente unificati. La pratica della presenza mentale l’aveva reso capace di sviluppare grandi poteri di concentrazione che ora poteva usare per illuminare di consapevolezza corpo e mente. Entrato in meditazione profonda iniziò a percepire la presenza di infiniti altri esseri, nel momento presente, entro il suo stesso corpo. Esseri organici e inorganici, minerali, muschi ed erbe, insetti, animali e persone… tutti erano dentro di lui. Vide che gli altri, in quel preciso momento, erano lui stesso. Vide le proprie vite passate, con tutte le nascite e le morti. Assistette alla creazione e alla distruzione di migliaia di mondi e di migliaia di stelle. Provò le gioie e le pene di tutti gli esseri viventi, di quelli nati da un grembo, nati da un uovo e nati dalla scissione, dividendosi in due creature nuove. Vide che ogni cellula del proprio corpo conteneva tutto ciò che è nel cielo e sulla terra, abbracciando insieme il passato, il presente e il futuro. Era la prima veglia della notte.

Gautama si calò ancora più profondamente nella meditazione. Vide come innumerevoli mondi nascono e muoiono, come vengono creati e distrutti. Vide gli esseri innumerevoli passare attraverso nascite e morti incalcolabili. Vide che le nascite e le morti non sono che apparenze, e non la realtà, così come milioni di onde si alzano senza posa dalla superficie dell’oceano e vi sprofondano, mentre l’oceano è al di là di nascita e morte. Se le onde potessero comprendere di essere anch’esse acqua, trascenderebbero la vita e la morte e raggiungerebbero la pace interiore, superando tutte le paure. Tale comprensione gli consentì di trascendere la rete della nascita e della morte, e Gautama sorrise. Il suo sorriso era simile a un fiore schiusosi nell’oscurità della notte irradiando un alone di luce. Era il sorriso di una comprensione meravigliosa, la visione della distruzione di ogni contaminazione. Era la seconda veglia.

In quel preciso momento si udì un tuono, mentre lampi di luce guizzavano come per squarciare il cielo. Nuvole nere nascosero la luna e le stelle. Cadde la pioggia. L’acqua inzuppava Gautama che non si mosse, perseverando nella meditazione.

Senza vacillare, illuminò di consapevolezza la propria mente. Vide che gli essere soffrono perché non comprendono che partecipano della stessa natura di tutti gli esseri. L’ignoranza dà nascita a un’infinità di pene, di confusione e difficoltà. Avidità, ira, arroganza, dubbio, gelosia e paura, affondano tutti le radici nell’ignoranza. Imparando a calmare la mente per vedere più a fondo nella vera natura delle cose, possiamo giungere alla comprensione globale che dissolve ogni ansia e ogni dolore, sostituendoli con l’accettazione e l’amore.

Gautama vide che comprensione e amore sono un’unica cosa. Senza comprensione non vi può essere amore. Il carattere degli uomini è il prodotto di condizioni fisiche, emotive e sociali. Questa comprensione ci impedisce di odiare anche chi agisce crudelmente e ci spinge a fare qualcosa per cambiare quelle condizioni. La comprensione origina compassione e amore, i quali a loro volta determinano la giusta azione. Per poter amare, bisogna prima comprendere; ed ecco che la comprensione si rivela la chiave della liberazione. Per sviluppare la chiara comprensione è necessario vivere in presenza mentale, in diretto contatto con la vita nel momento presente, vedendo la realtà di quanto avviene dentro e fuori noi stessi. La pratica della consapevolezza rafforza la capacità di guardare il profondità. Se sappiamo vedere dentro il cuore delle cose, le cose si riveleranno. Questo è il tesoro segreto della presenza mentale: essa conduce alla liberazione e all’illuminazione. La vita viene illuminata da retta comprensione, retto pensiero, retta parola, retta azione, retti mezzi di sussistenza, retto sforzo, retta presenza mentale e retta concentrazione. Siddhartha la chiamò ariya-marga, il Nobile Sentiero.

Guardando in profondità nei cuori degli esseri, Siddhartha poté vedere con chiarezza ogni mente, a qualunque distanza, e udì tutte le grida di dolore e di gioia. Raggiunse lo stato della vista divina, dell’udito divino e la capacità di percorrere infinite distanza senza muoversi. Era la fine della terza veglia, e i tuoni erano cessati. Le nuvole si dileguarono, rivelando lo splendore della luna e delle stelle.

Per Gautama fu come se la prigione che lo racchiudeva da migliaia di esistenze fosse crollata. Il carceriere era l’ignoranza. Solo l’ignoranza aveva oscurato la sua mente, così come le nuvole avevano nascosto la luna e le stelle. Velata da onde infinite di pensieri illusori, la mente aveva diviso in maniera fallace la realtà in soggetto e oggetto, io e gli altri, esistenza e non esistenza, nascita e morte, e da tali discriminazioni erano sorte le visioni errate, le prigioni della sensazione, del desiderio, dell’attaccamento e del divenire. La sofferenza della nascita, della vecchiaia, della malattia e della morte, non fa altro che rendere le mura più spesse. L’unica cosa da fare era acciuffare il carceriere e guardarlo in faccia. Ed ecco che il carceriere è l’ignoranza. L’ignoranza era stata vinta percorrendo il Nobile Ottuplice Sentiero. Una volta scomparso il carceriere, anche la prigione svanisce per non venire ricostruita mai più.

Sorridendo, l’eremita Gautama sussurrò tra sé: “Carceriere, ora ti conosco. Per quante esistenze mi hai tenuto prigioniero di nascita e morte? Ma ora vedo il tuo vero volto, e d’ora in avanti non potrai più costruire prigioni attorno a me”.

Siddhartha alzò gli occhi. La stella del mattino si levava all’orizzonte, vivida come un diamante. Quante volte l’aveva guardata sedendo sotto l’albero di pippala, ma ora era come se la vedesse per la prima volta. Aveva lo stesso bagliore, lo stesso sorriso trionfante dell’Illuminazione. Siddhartha guardò la stella del mattino e, colmo di compassione, esclamò: “Tutti gli esseri hanno in sé i semi dell’Illuminazione, eppure affoghiamo nell’oceano di nascita e morte per migliaia di esistenze!”.

Siddhartha capì di avere trovato la Grande Via. Aveva raggiunto lo scopo: il suo cuore era in pace e in perfetto benessere. Ripensò agli anni di ricerca, colmi di delusioni e fatiche. Ripensò al padre, alla madre, alla zia, a Yasodhara, a Rahula e agli amici. Rivide il palazzo, Kapilavatthu, il suo popolo, il suo paese e tutti coloro che vivevano tra gli stenti e la povertà, specialmente i bambini. Si ripromise di trovare il modo per comunicare quanto aveva appena scoperto e aiutare gli altri a liberarsi dalla sofferenza. Dalla sua profonda conoscenza era nato un immenso amore per tutti gli esseri.

Lungo il fiume, fiori dai vivaci colori si aprivano ai primi raggi del sole. Il sole danzava tra le foglie e scintillava sull’acqua. La sofferenza di Siddhartha era svanita e si rivelava la meraviglia della vita. Tutto assumeva un aspetto nuovo. Che meraviglia i cieli azzurri e le nuvole bianche! Gli parve che lui e l’intero universo fossero stati appena creati.

In quel momento giunse Svasti. Vedendo il giovane guardiano di bufali corrergli incontro, Siddhartha sorrise. Ma Svasti si fermò di colpo e lo fissò a bocca aperta.

“Svasti!”, lo chiamò Siddhartha.

“Maestro!”, rispose il ragazzo, riprendendosi.

Svasti giunse le mani e si inchinò. Fece alcuni passi avanti e si fermò di nuovo, guardandolo con soggezione. Confuso dal suo stesso comportamento, disse esitando: “Maestro, come sembri diverso oggi!”.

Siddhartha gli fece cenno di avvicinarsi. Lo prese tra le braccia e chiese: “Che differenza vedi?”.

“È difficile esprimerlo”, rispose il ragazzo guardandolo bene. “Sembri diverso. È come se tu, se tu fossi una stella”.

Siddhartha lo accarezzò sulla testa: “Davvero? Che cos’altro sembro?”.

“Sembri un fiore di loto che si è appena aperto. Sei come, come la luna sul picco Gayasisa”.



– da “Vita di Siddhartha il Buddha” di Thich Nhat Hanh

La guarigione psicomagica - di Alejandro Jodorowsky



La psicomagia tenta di far guadagnare tempo, accelerando la presa di coscienza: così come una malattia può manifestarsi all’improvviso, anche la guarigione può arrivare repentinamente. Una malattia improvvisa viene chiamata disgrazia, una guarigione repentina miracolo. Eppure entrambe hanno un’unica radice: sono manifestazioni del linguaggio dell’inconscio. Grazie a una veloce analisi tramite i tarocchi, grazie a una profonda comprensione mediante lo studio delle ripetizioni all’interno dell’albero genealogico e grazie alle azioni psicomagiche, possiamo avvicinarci alla pace interiore che è il frutto della scoperta della nostra vera identità; e questo ci consente di vivere con gioia e di morire senza angosce, sapendo che non abbiamo sprecato il nostro passaggio in questo sogno che chiamiamo “realtà”. Eppure, per quanto validi possano essere questi interventi, se il sofferente non mette tanta energia quanta il terapeuta, se non porta a termine una mutazione mentale, l’intero lavoro si limita a sedare i sintomi: sembra eliminare il dolore ma lascia intatta la ferita che continua a oscurare con la sua ombra angosciante la totalità dell’individuo. Chi viene a consultarmi chiede aiuto ma nello stesso tempo lo rifiuta. L’atto terapeutico è una strana battaglia: si lotta strenuamente per aiutare qualcuno che innalza tutte le barriere possibili per provocare il fallimento della guarigione. In un certo senso, per chi è malato il guaritore è una speranza di salvezza e contemporaneamente un nemico. Chi soffre teme che gli venga rivelata la fonte del suo male di vivere, per cui vuole un sedativo, vuole che qualcuno lo renda insensibile al dolore, ma non desidera assolutamente cambiare, non vuole che gli si dimostri che i suoi problemi sono la protesta di un’anima rinchiusa nella prigione di un’identità fasulla. [...]

Il cervello umano reagisce come un animale, difende il proprio territorio identificandolo con la propria vita. Fanno parte di questo spazio, delimitato con l’orina e gli escrementi, i genitori, i fratelli, i partner, i collaboratori e, soprattutto, il corpo. Ma chi è il padrone? È un individuo con limitazioni che corrispondono al proprio livello di coscienza. Più il livello di coscienza è elevato, più grande è la libertà. Per raggiungere tale grado di libertà, nel quale il territorio non si limita più a una manciata di metri quadrati o a un piccolo gruppo di soci, ma è l’intero pianeta e la totalità degli uomini, o meglio ancora, l’universo intero e la totalità degli esseri viventi, innanzitutto occorre cicatrizzare la ferita originaria, liberarsi dai condizionamenti fetali, poi da quelli famigliari e infine da quelli sociali. Per realizzare la mutazione nella quale il sofferente, avendo lasciato perdere ogni pretesa, riesce a vivere con gratitudine il miracolo di essere vivo, occorre essere consapevoli dei propri meccanismi di difesa. E sono i meccanismi che tutti gli animali impiegano per sfuggire ai nemici predatori. Sanno incistarsi e anche fingere di essere morti, si arrotolano su se stessi, si ricoprono di squame chitinose, si nascondono nel fango, trattengono il respiro e perfino i battiti del cuore. L’essere umano fa lo stesso: si blocca, finisce in un circolo vizioso di gesti ripetitivi, desideri, emozioni, pensieri, e vegeta in questi limiti ristretti rifiutando ogni informazione nuova, immerso nell’incessante ripetizione del passato. Per fuggire dalle profondità, si lascia vivere galleggiando sopra un tessuto di sensazioni superficiali, come anestetizzato. [...]

Fondamentalmente, ogni malattia è una mancanza di consapevolezza impregnata di paura. Tale incoscienza nasce da un divieto imposto senza fornire spiegazioni, che la vittima deve accettare anche se è incomprensibile. Si pretende che il bambino non sia quello che è, se disobbedisce viene castigato. E il castigo più grande è non essere amato.

Lo psicosciamano, così come il guaritore primitivo, mentre opera deve eludere non soltanto le difese del paziente ma anche le sue paure. L’educazione puramente razionale ci vieta di usare il corpo nella sua completa estensione in quanto la pelle viene considerata come il confine di noi stessi, e così ci fa credere che sia normale vivere in uno spazio limitato. Questo genere di educazione spoglia il sesso di ogni potere creativo dandoci l’illusione di vivere soltanto un tempo breve e negando così l’eternità della nostra essenza. Estirpa i sentimenti sublimi dal centro emotivo attraverso una filosofia che punta a sminuire la persona, per inculcarci la paura del cambiamento e mantenerci a un livello di coscienza infantile dove si venera la sicurezza venefica e si detesta la salutare incertezza. Con ogni mezzo, appoggiandosi a dottrine politiche, morali e religiose, ci fa disconoscere il potere della nostra mente.

Se la realtà è come un sogno, dobbiamo agire senza subirla, così come facciamo in un sogno lucido, ben sapendo che il mondo è quello che crediamo che sia. I nostri pensieri attraggono i loro simili. Verità è quello che è utile, non soltanto per noi ma anche per gli altri. Tutti i sistemi che in un momento ben preciso sono necessari, in seguito diverranno arbitrari e noi abbiamo la libertà di cambiare sistema. La società è il risultato di quello che lei crede di essere e di quello che noi crediamo che sia. Possiamo cominciare a cambiare il mondo cambiando i nostri pensieri.

La pelle non è la nostra barriera: non esistono limiti. Gli unici limiti positivi sono quelli che ci servono, momentaneamente, per sottolineare la nostra individualità, ma con la consapevolezza che tutto è collegato. La separazione è un’illusione utile, come quando il guaritore sistema una corda attorno al collo del paziente per fargli capire che deve assumersi la responsabilità della propria malattia e non diffonderla. La guarigione miracolosa è possibile ma dipende dalla fede del malato. Lo psicosciamano deve guidare il paziente con accortezza, per farlo credere in ciò in cui lui crede. Se il terapeuta non crede, non c’è guarigione possibile.

La vita è fonte di salute, ma questa energia scaturisce soltanto nei punti in cui concentriamo la nostra attenzione. E questa attenzione non deve essere soltanto mentale ma anche emotiva, sessuale e corporea. Il potere non risiede né nel passato né nel futuro, che sono le sedi della malattia: la salute si trova qui, adesso. Possiamo abbandonare immediatamente le cattive abitudini se la smettiamo di identificarci con il passato. Il potere dell’“adesso” cresce insieme all’attenzione sensoriale. Dobbiamo condurre il paziente a esplorare il momento attuale, dobbiamo renderlo consapevole dei colori, delle linee, dei volumi, delle dimensioni, delle ombre, degli spazi che esistono fra gli oggetti. Deve sentire ogni singola parte del suo corpo per poi riunirle in un tutto unico; deve trasformare il respiro in piacere, deve captarne il calore e l’energia dentro e fuori di sé, deve capire che amare significa essere contenti di ciò che si è e di ciò che sono gli altri. L’amore cresce nella misura in cui la critica diminuisce: è tutto vivo, sveglio, e risponde. Tutto acquista potere se è il paziente a darglielo... Una madre faceva seguire un trattamento fitoterapeutico al proprio figlio: doveva fargli bere dell’acqua in cui aveva diluito quaranta gocce di un misto di oli essenziali, ma si rendeva conto che la situazione non migliorava. Le dissi: “Il problema è che non credi in questa medicina. Poiché sei di religione cattolica, ogni volta che gli farai bere le gocce, recita un padrenostro”. Così fece e il bambino guarì rapidamente. Se non diamo alla medicina un potere spirituale, non può avere effetto.

È bene sottolineare qui l’importanza dell’immaginazione. In questo libro ho fatto un esercizio: ho scritto un’autobiografia immaginaria, anche se non nel senso di “fittizia”, dato che tutti i personaggi, i luoghi e i fatti narrati sono veri, ma nel senso che la storia profonda della mia vita è il risultato di uno sforzo costante per stimolare la mia fantasia, ampliarne i limiti, per apprenderne il potenziale terapeutico e trasfiguratore. Oltre all’immaginazione intellettuale, esistono l’immaginazione emotiva, sessuale, corporale, sensoriale. L’immaginazione economica, mistica, scientifica, poetica. È presente in tutti i campi, compresi quelli che consideriamo “razionali”. Perciò dobbiamo svilupparla per affrontare la realtà, non partire da una prospettiva unica ma da molteplici angoli visuali.

Il nostro abituale parametro di valutazione è l’angusto paradigma delle nostre credenze e dei nostri condizionamenti. Della realtà misteriosa, vasta e imprevedibile, percepiamo soltanto ciò che filtra attraverso il nostro minuscolo punto di vista. L’immaginazione attiva è la chiave di una visione più ampia, permette di mettere a fuoco la vita da punti di vista che non sono i nostri, immaginando altri livelli di coscienza superiori al nostro. Se fossi una montagna o il pianeta o l’universo, che cosa direi? Che cosa direbbe un grande maestro? E se Dio parlasse attraverso la mia bocca, quale sarebbe il suo messaggio? E se io fossi la Morte?... Quella Morte che mi è stata rivelata da un cane che ha posato ai miei piedi un sassolino bianco, la stessa che mi ha separato dal mio Io illusorio facendomi fuggire dal Cile e spingendomi a cercare disperatamente il senso della vita. La stessa Morte che da terribile nemica è diventata una gentile dama di compagnia.

Per concludere, vorrei ritornare alla mia giovinezza e appollaiarmi di nuovo sul ramo di un albero insieme al mio amico poeta, e come quella volta indimenticabile vorrei dedurre dal molto che non sappiamo quel poco di prezioso che sappiamo:


Non so dove vado, ma so con chi vado.
Non so dove sono, ma so che sono in me.
Non so che cosa sia Dio, ma Dio sa che cosa sono.
Non so che cosa sia il mondo, ma so che è mio.
Non so quanto valgo, ma so non fare paragoni.
Non so che cosa sia l’amore, ma so che godo della tua presenza.
Non posso evitare i colpi, ma so come sopportarli.
Non posso negare la violenza, ma posso negare la crudeltà.
Non posso cambiare il mondo, ma posso cambiare me stesso.
Non so che cosa faccio, ma so che sono fatto da ciò che faccio.
Non so chi sono, ma so che non sono colui che non sa.




- da “La danza della realtà” di Alejandro Jodorowsky -

"Teardrop" - Massive Attack

mercoledì 20 aprile 2011

Geomanzia, Feng Shui


La parola Geomanzia fa riferimento a due settori della conoscenza diversi fra loro. Nel primo ambito, le cui basi sono di origine cinese, si parla su come di manifesta l’energia universale (Feng Shui) sulla terra, mentre nel secondo ci si riferisce ad una arte divinatoria. È possibile rintracciare delle notizie sulla geomanzia risalenti già all’era neolitica in cui Romani Celti e Bizantini ne facevano uso. Essi, infatti, orientavano abitazioni e edifici in relazione ai punti cardinali o addirittura gli astri. Ciò avveniva in quanto vi era una visione globale dell’universo, dove ogni elemento è connesso a tutti gli altri. Da questo deriva la ricerca e la collocazione del campo energetico “uomo” all’interno del campo energetico “pianeta”. Tra questi due sistemi è possibile individuare una serie di relazioni in cui tutte le parti sono reciprocamente legate tra di loro. L’equilibrio che si instaura tra entrambi i sistemi, derivato dalle intrinseche forze energetiche interne, permette di trovare benessere e armonia. La geomanzia, però, può semplicemente essere una tecnica per prevedere il futuro. Questo metodo divinatorio non presuppone grandi doti medianiche o extrasensoriali ma impegno, dedizione e passione. Seconda questa interpretazione il termine “Geomanzia” avrebbe un’origine greca dove “geo”, significa “terra”, e “manteia”, ovvero “divinazione”. In generale l’origine non è del tutto chiara. Alcuni ritengono che i padri fondatori siano i Persiani chi invece pensa siano gli Arabi. Si narra che già gli uomini primitivi leggessero nelle costellazioni una sorta di messaggio dettato dagli Dei e che cercavano poi di interpretarlo in modo da poter “predire” ciò che indicato proprio dagli stessi Dei e di conseguenza il futuro. Quegli uomini cercano di riprodurre i medesimi messaggi sulla terra o sulla sabbia, così da poter imparare il loro linguaggio. Per questo la Geomanzia viene ritenuta uno dei metodi divinatori più antichi. È comunque generalmente accetta l’idea che la geomanzia abbia avuto origine in Persia, molti millenni fa. Successivamente tra il XIV e il XV secolo si cominciarono a trovare opere sulla Geomanzia e in seguito vennero approfonditi gli studi, alcuni dei quali mirati a rintracciare legami tra la geomanzia e l’astrologia. Oggi, grazia all’impulso dato dagli Arabi, questa tecnica divinatoria si è diffusa sia in occidente che in oriente. Anticamente, tale tecnica consisteva nel prendere tra le mani una certa quantità di terra e poi la si lanciava al suolo, delicatamente. Le forme che si creavano era oggetto di interpretazione da parte dell’indovino. Oggi invece, quest’arte definita “geomanzia sulla carta” inizia con la formulazione di una domanda e poi, ad occhi chiusi, con la matita si picchietta sul foglio formando, istintivamente dei cerchi disposti in sedici file. Alla fine di questa operazione questi segni vengono sistemati a coppie fino a che rimangono o una copia intera o un singolo segno.

Questa operazione si ripete per le sedici file, e i segni finali, doppi o unici, vengono raggruppati a quattro a quattro, in modo da ottenere quattro figure di quattro segni l'una, incolonnati. Queste prime quattro figure sono dette “le madri”. Da queste, ricomponendo i segni delle quattro madri linea per linea partendo dall'alto, si ricavano altre quattro figure chiamate “le figlie”. Poi, sommando i segni delle prime due e seconde due madri e delle prime due e seconde due figlie si ricavano altre quattro figure dette “le nipoti”, e poi da queste, sempre sommando i segni, singoli o doppi, i “due testimoni” detti “del passato e del futuro”, e infine dalla somma di questi due la sintesi soprannominato “il giudice”. Le figure che possono formarsi sono sedici, alcune portano beneficio altre hanno un carattere più negativo: popolus, via, caput draconis, puella, puer, cauda draconis, fortuna maior, carcer, fortuna minor, conjunctio, tristitia, laetitia, albus, rubeus, acquisitio, amissio.

martedì 12 aprile 2011

Pacco regalo

L' estetica...
imbelletto il mio involucro
colui che mi confina e mi definisce
su questa terra.. in questa società
tra gli uomini e le donne.
Corpo.. materia.. magnetico divisibile.
Crea il mio spazio.


Silvia Miccoli